sabato 15 dicembre 2012

Solidarietà con le lavoratrici del San Raffaele



Siamo solidali con le lavoratrici del S. Raffaele di Milano e pubblichiamo la loro lettera

QUANDO LE DONNE SALGONO SUI TETTI

Salire su tetti, torri o gru o su altre piattaforme collocate al di sopra delle teste di una comunità è una pratica di lotta non più nuova. Riflette uno stato dei conflitti di classe in cui, più che in passato, la forza organizzata ha bisogno di sostegni nella pubblica opinione. Ogni espediente diventa quindi legittimo, se serve a far accendere su quella lotta le luci. Quando poi sono delle donne a salire, allora la luce dei riflettori si fa più intensa e scattano forme impreviste di solidarietà.
Negli ultimi giorni di novembre due infermiere dell'ospedale San Raffaele di Milano, Graziella e Daniela, hanno deciso di rendere la lotta a cui partecipano più visibile, piantando una tenda sul punto più alto dell'ospedale e restandovi, malgrado il vento e la pioggia.
Vale la pena di raccontare brevemente questa storia, quella parallela di altre donne e di come a un certo punto le due storie si sono incontrate.

Sui campi di battaglia
Se si vuole comprendere la condizione delle donne nella crisi, allora bisogna ogni discorso che punti esclusivamente a sottolineare ingiustizie e svantaggi. Non per dimenticarsene in una visione ottusamente trionfalistica della femminilizzazione del lavoro, ma perché altre considerazioni hanno maggiore importanza, se l'ottica con cui si guarda al presente è quella delle lotte.
I dati più recenti dell'ISTAT dicono che in Italia aumenta sia l'occupazione sia la disoccupazione femminile.  Mentre l'occupazione maschile è diminuita nell'ultimo anno di 184.000 unità, quella femminile è cresciuta di 138.000; sono aumentate però di 288.000 anche le donne disoccupate.  Il fenomeno si legge così: la crisi ha spinto un numero maggiore di donne a cercare un'occupazione, uscendo così dalla categoria delle inattive ed entrando in quella delle disoccupate (o delle occupate). Per numerose ragioni le cose potrebbero nel futuro prossimo cambiare, ma per ora stanno come l'ISTAT registra e la morale della favola è che le donne sono gettate dalla crisi ancora di più sui campi di battaglia della guerra di classe. Che cosa questo significhi in termini di difficoltà a gestire la vita quotidiana, nel momento in cui la maggiore presenza sul mercato del lavoro si coniuga con la demolizione del welfare si è detto e scritto più volte. Ciò che ora interessa è che la presenza delle donne nel conflitto sociale diventa più forte, come la loro capacità di essere protagoniste. La lotta del San Raffaele, in cui l'80 per cento dei dipendenti è donna, ne è un esempio significativo. 

Le lavoratrici del San Raffaele
Le vicende dell'ospedale e della gestione truffaldina di Don Verzè sono note, pochi sanno però che esso riceve dalla Regione Lombardia finanziamenti per quasi 400 milioni l'anno, che rappresentano il 90 per cento delle sue entrate. La nuova proprietà  (padron Rotelli) ha annunciato 244 licenziamenti in tutti i reparti, compreso in quelli in cui il personale è già assai carente, mentre 180 licenziamenti sono già avvenuti nella forma del mancato rinnovo di contratti a tempo determinato. Ai licenziamenti dovrebbe aggiungersi il passaggio dal contratto dalla sanità pubblica, di cui lavoratrici e lavoratori del San Raffaele godevano, al contratto privato in una delle sue versioni peggiori, che comporterebbe arretramenti notevoli sul terreno normativo e retributivo.  Le donne sono state della lotta protagoniste assolute e la cosa non è in sé ovvia, come sembrerebbe in un luogo di lavoro all'80 per cento femminile. La radicalità e la partecipazione delle donne negli episodi di lotta del conflitto sociale non è una novità; meno tradizionale invece la loro decisione di prendere in mano le briglie dello scontro, di esporsi, di dirigere, di salire dove si è inevitabilmente più visibili.  Ed è anche significativo il fatto che la lotta non abbia solo riguardato la difesa del posto di lavoro e delle sue condizioni; una contestazione si è aperta anche sugli atteggiamenti sessisti della direzione..

Donne nella crisi
Mentre le dipendenti del San Raffaele presidiavano l'ospedale giorno e notte, nasceva a Firenze “Donne nella crisi”. Un'assemblea di duecento donne nel contesto del Forum sociale europeo (8-9-10-11 novembre), chiamata dall'appello “per un femminismo di movimento e di lotta”, firmato da un centinaio di compagne di diverse appartenenze, decideva di tentare il percorso di costruzione di una rete sui temi della crisi e dell'austerità.
L'ipotesi di lavoro è semplice, almeno a dirsi. Senza proclamare reti che ancora non esistono e a partire da una lista, ci si propone di mettere in contatto lotte differenti di donne, dar vita a campagne di solidarietà nazionali e internazionali, raccogliere fondi e appoggiare vertenze individuali. Dal momento che il nucleo per ora più attivo è in Lombardia, l'incontro con le lavoratrici del San Raffaele è stato il secondo passo della lista, dopo quello dell'assemblea di Firenze.
Si è fatto ciò che si poteva fare, obiettivamente poco ma l'uso di siti, blog, facebook, liste, twitter e giornali on line ha consentito una diffusione di notizie con altri mezzi impensabile. Alle iscritte è stato dato il suggerimento non solo di far circolare attraverso Internet il volantino di sostegno alla lotta, ma anche che ciascuna ne stampasse un certo numero da diffondere tra conoscenti e in riunioni. Se si tiene conto che la lista ha 125 iscritte, l'ampiezza della campagna di solidarietà è risultata alla fine più ampia di quanto ci si potesse aspettare da un piccolo aggregato ai primi passi.
Lavoratori e lavoratrici del San Raffaele hanno ancora una strada difficile da percorrere perché, dopo aver mimato un'apertura quando Graziella e Daniela erano sul tetto, la direzione sembra tornata sulla sua posizione iniziale che non concede assolutamente nulla. E se la lotta è stata  compatta e coraggiosa, bisognerà che la RSU, che finora ha guidato egregiamente la resistenza, affini le sue capacità di stringere relazioni con il resto del mondo.

Se la lotta davvero continua

La lotta delle lavoratrici del San Raffaele continuerà, anche se sui suoi esiti non possono esservi certezze. Forse continuerà anche l'attività della lista “Donne nella crisi” e tra un'incertezza e l'altra esiste un legame. La crisi ha aperto in gran parte del mondo un periodo di resistenze e proteste, che hanno indotto il Time a nominare persona dell'anno 2011 The Protester, il manifestante, colui/colei che cambia la storia. Ma si tratta di movimenti e proteste ad alto tasso di sconfitte per il logoramento di strumenti di lotta una volta centrali e per lo stato dei rapporti di forza. The Protester,
uomo o donna che sia, agisce in un contesto in cui tutto è più difficile e tra le altre cose è anche più difficile immaginare.  Trovare modalità di superamento della frammentazione, compiere l'insieme degli atti e delle pratiche che avvicinano un pensiero politico al suo referente sociale, concepire soluzioni e propositi che vadano oltre il proprio “particulare” sono compiti che una rete di donne potrebbe assolvere e che avrebbe oggi l'autorità di proporre anche ad uomini. Ma è difficile: è come se di certe pratiche obiettivamente necessarie, si fosse persa la capacità e l'intenzione stessa.
Se però davvero la lista comincerà a funzionare come un embrione di rete, allora non ci sarà che l'imbarazzo della scelta.  Altre lotte di donne sono in calendario; sono aperte vertenze di donne licenziate perché in gravidanza; circola l'idea di una campagna nazionale che sia di solidarietà e raccolta di fondi per le donne greche e interessi le italiane sul tema della sanità pubblica.  Si è pensato infatti a una campagna nazionale che sia di solidarietà e raccolta di fondi per le donne greche e nello stesso tempo interessi le Italiane sul tema della sanità.  La compagna greca intervenuta nell'assemblea di Firenze ha raccontato che nel suo paese non c'è più copertura per l'assistenza al parto in ospedale. Chi la desidera deve pagare 1500 euro, una cifra enorme per la maggioranza delle cittadine greche in questo momento. Raccogliere un po' di fondi per loro su un appello e aprire nello stesso tempo un discorso sulla questione in Italia, sarebbe davvero opportuno, soprattutto se si tiene conto che prima di cadere Monti aveva già aperto il fuoco sul servizio sanitario italiano.  E infine può anche accadere che Graziella e Daniela salgano di nuovo sul tetto.

martedì 4 dicembre 2012

L'appello e il presidio per ricordare Modou Samb e Mor Diop

 foto Laura Albano
Libere Tutte Firenze aderisce all'appello dell’ Associazione dei Senegalesi di Firenze e Circondario, ad un anno dell’ assassinio di Modou Samb e Mor Diop e il grave ferimento di altri tre lavoratori senegalesi.

Il 13 Dicembre in Piazza Dalmazia alle 17 si terrà un presidio per esprimere solidarietà alla Comunità Senegalese e la totale condanna ad ogni comportamento e ad ogni aggressione fascista e razzista.
APPELLO PER RICORDARE MODOU SAMB E MOR DIOP

Il 13 dicembre di un anno fa in Piazza Dalmazia furono assassinati Modou Samb e Mor Diop; furono feriti in modo grave Sougou Mor, Mbengue Cheikh e Moustapha Dieng (che non potrà più essere autosufficiente). Nell’ appello che come cittadini e cittadine senegalesi facemmo per invitare la Firenze antifascista e antirazzista a reagire a tale crimine dicemmo con chiarezza che non si trattava del gesto isolato di un folle ma del frutto orrendo di un clima diffuso di intolleranza e di ostilità nei confronti dei migranti, degli stranieri, dei “diversi”, un clima alimentato da leggi, provvedimenti, ordinanze mirate a colpire, a reprimere, a perseguire chi non rientrava nello schema “ordine e sicurezza” prescritto dalle forze dominanti. Ed in cui i veleni razzisti si intrecciavano strettamente con i germi estremamente pericolosi dei vecchi e nuovi fascismi.
Ebbene, dodici mesi dopo, non molto è cambiato. Non vi è stata quella reazione corale che avrebbe dovuto mobilitare tutte le energie e le risorse positive, tutte le forze culturali, sociali, politiche che hanno come baricentro la Costituzione, tutti gli anticorpi ai veleni razzisti e fascisti presenti nella società italiana.
Ancora oggi sono ancora in vita strutture indegne di un Paese civile come i CIE, continuano a morire in mare profughi e richiedenti asilo che cercano di raggiungere le coste italiane, non vengono prese in considerazione le proposte di legge per dare il voto ai migranti e la cittadinanza ai figli d’ immigrati che nascono in Italia, restano in vigore normative come quella denominata Bossi-Fini, né sono scomparse le ordinanze securitarie che avevano avuto larga diffusione a livello comunale. E Casa Pound, dal cui ambito proveniva l’ assassino di Piazza Dalmazia, prosegue nelle sue vergognose imprese: l’ ultima, di qualche giorno fa, l’interruzione violenta di un incontro - di una festa - , a Pontedera, per l’attribuzione della cittadinanza onoraria alle figlie ed ai figli dei migranti nate/i in quel comune.
I pericolosi ritorni fascisti e nazisti non sono peraltro una prerogativa italiana, ma un morbo che si sta diffondendo in altri Paesi europei ( vedi Alba Dorata in Grecia ).
Per questo vogliamo ricordare, sul luogo dell’ atto criminoso, i nostri fratelli assassinati. Si tratta di un ricordo che ci vedrà stringerci insieme, noi e tutte/i coloro che vorranno essere con noi, vicino alla lapide in Piazza Dalmazia con i loro nomi, ma anche dell’occasione per rinnovare l’ impegno, rendendolo più efficace, a cambiare le normative che alimentano l’ intolleranza ed il razzismo, a contrastare i fascismi risorgenti, avvertendone finalmente tutta la pericolosità, a costruire un clima diverso - di apertura, di accoglienza, di solidarietà -. Per una città ed un Paese civili, in cui non siamo più possibili atti come quelli di un anno fa.

ASFC (Associazione dei Senegalesi di Firenze e Circondario)

(per le adesioni all’appello:  kebeazu@hotmail.com)

sabato 1 dicembre 2012

Firenze 13 dicembre, un anno dopo la strage





Fervono i preparativi per le commemorazioni dei morti, ma cosa ne è stato dei tre feriti? Le promesse sono state rispettate?
Firenze si prepara a ricordare la strage del 13 dicembre. E’ prevista un’intera giornata di commemorazione dedicata alle vittime. La mattina verrà organizzato un convegno, nel pomeriggio ci sarà un presidio nell’ormai tristemente famosa piazza Dalmazia. Chiuderà la giornata un grande concerto, che si terrà la sera al MandelaForum, dove è prevista anche la presenza dell’artista senegalese Youssou Ndour. Ma le stesse istituzioni, che si stanno impegnando nell’organizzazione di questa celebrazione, quanto, in tutto questo tempo, si sono ricordate di Moustopha Dieng? Nella strage che l’estremista di destra Gianluca Casseri, mise in atto nei due mercati fiorentini e dove trovarono la morte Samb Modou e Diop Mor, rimasero feriti anche Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike. Mentre Mor e Cheinke sono stati dimessi e stanno cercando di recuperare una vita normale, Moustapha da quel giorno sciagurato è fermo in un letto all’ospedale di Careggi. Abbiamo intervistato Mercedes Frias, attiva da anni nella lotta per i diritti dei migranti, che assieme alla comunità senegalese, in quest’ultimo anno, si è impegnata per aiutare i tre ragazzi rimasti feriti.
Come sta adesso Moustapha?
«E’ bloccato al letto di un reparto specialistico dell’unità spinale di Careggi, dal mezzogiorno di quel 13 dicembre, in cui il razzismo di stampo fascista ha sfoggiato la sua manifestazione più feroce. Il proiettile gli è penetrato dalla gola e ha continuato fino alla spina dorsale. Moustapha ha dunque esofago, trachea e colonna vertebrale definitivamente e gravemente lesionati. Da poco ha iniziato lentamente a deglutire, lentamente dalle sue corde vocali inizia ad uscire qualche flebile suono. Non sempre riesce a respirare in autonomia. I movimenti delle sue mani sono ancora limitati e incerti e non potrà più camminare. Questo è il suo corpo, la sua vita: non c’è niente di simbolico».
Per quanto tempo dovrà rimanere in ospedale ancora?
«Le sue dimissioni sono molto lontane e dovrà comunque rimanere per anni in una struttura specializzata. In Italia Moustapha ha solo un fratello, vive in provincia di Pisa, fa il venditore ambulante e può recarsi in ospedale una volta a settimana. Di lui si occupa Madiagne Ba, un senegalese di Firenze, che pur non conoscendo Moustapha prima della strage, va a trovarlo tutti i giorni. E’ divenuto una presenza così importante da essere considerato il punto di riferimento anche per i medici».
Come stanno gli altri due feriti?
«Sougou Mor è a casa e cerca di curarsi quelle cinque ferite alle braccia che si è procurato per parare gli spari. Mbenghe Cheike, anche lui colpito nella seconda tappa della spedizione, vive in casa con la moglie e un figlio a Firenze e sta meglio. Entrambi sono stati dimessi alcuni mesi fa. Le ferite ai loro corpi vanno guarendo. Quelle alla loro umanità, al loro essere uomini, sono profonde e richiedono molto tempo per guarire».
Ci sono stati dei risarcimenti per i feriti?
«I soldi che hanno avuto fino ad oggi sono venuti dalla buona volontà della gente. La Provincia di Pistoia forse ha dato qualcosa. Nessun indennizzo al momento, nonostante il decreto legislativo del 2007 che recepisce la direttiva sull’indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti».
C’è stata solidarietà intorno alle vittime di questa brutta vicenda?
«Della sorte dei feriti la cittadinanza non sa niente. Invece abbiamo assistito ad un proliferare di iniziative pietistiche in nome delle vittime e di un uso strumentale della loro sofferenza. Queste iniziative di fatto sono costruite con modalità e contenuti che ignorano le cause della spedizione razzista di dicembre. Ignorando le causa, si sorvola sulle condizioni delle vittime e dei loro familiari, rendendoli doppiamente vittime. Il megaevento con il quale il Comune di Firenze commemora la strage che aveva derubricato a “fatto isolato compiuto da un folle”; i tornei di calcio per le vittime, la miriade di progetti e progettini nei luoghi di provenienza delle vittime, organizzati da Enti Locali e associazioni, hanno qualche relazione con i fatti, le sue cause e le eventuali misure di contrasto e prevenzione?».
Queste iniziative non servono a nulla dal punto di vista della lotta al razzismo?
«Come stanno insieme la morte per razzismo e i progetti nei “villaggi” di origine delle vittime? Come stanno insieme le sofferenze quotidiane e le fatiche burocratiche dei feriti e dei loro familiari con le pompose commemorazione istituzionali? Quante di queste iniziative guarda in faccia chi è stato oggetto di tanta violenza? Chi e quali strumenti si adopera per rimuovere le cause della devastazione culturale e politica che ha reso possibile che tali fatti succedessero? Nella retorica della “comunità”, riferita ai migranti su basi nazionali, nascono e si sviluppano pratiche che rimandano alla primitività e che rendono possibile l’assenza di coerenza fra fatti e proposte, che tendono a perpetuare la disuguaglianza attraverso una visione culturalista che inferiorizza chi è già stato vittima di razzismo».
Cosa bisognerebbe fare?
«Praticare quotidianamente la lotta al razzismo e dare attenzione alle sue vittime, con uno sguardo tra pari. Madiagne è un esempio per tutti. Con la sua costanza silenziosa, collezionando contravvenzioni dell’autobus, dato che essendo disoccupato non ce la fa a comprare i biglietti, si è fatto portatore di quella umanità che la condizione di Moustapha necessita quotidianamente».
Francesca Materozzi

Il femminicidio e le responsabilità del linguaggio dei giornali: lettera aperta



Il Coordinamento “Violenza di genere e sessismo. Come intervenire?” nato a Firenze il 12 maggio 2012 in occasione del convegno “Diversi, e allora?”, di cui fa parte  anche l'associazione Libere Tutte, indirizza questa lettera alle giornaliste e ai giornalisti  che trattano il fenomeno drammatico della violenza maschile contro le donne: il FEMMINICIDIO.
Lettera aperta alle giornaliste, ai giornalisti ed alle loro organizzazioni sindacali di categoria    
In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne del 25 novembre, vi invitiamo a fare una profonda riflessione.
Tutte e tutti, quando raccontate l'omicidio di una donna, perpetrato da un uomo della famiglia- o che comunque, con quella donna ha o ha avuto a che fare, -non potete usare un linguaggio sbagliato e fuorviante .Non soltanto perchè usare un linguaggio appropriato e corretto fa parte della vostra deontologia professionale, ma soprattutto perchè , come un giorno ricordò Livia Menapace: 
”LE PAROLE SONO PIETRE”. 
Le parole e le immagini che rappresentano la violenza maschile contro le donne ed il FEMMINICIDIO come fosse un qualsiasi fatto di cronaca, -dove uomini gelosi uccidono una donna per disperazione o perchè presi da un raptus incontrollabile- non solo non raccontano la verità, ma sono come pietre lanciate contro le donne. Non raccontano la verità perchè quell'uomo spesso aveva già in precedenza tentato di ammazzare quella donna -oppure girava armato-Ma soprattutto SONO PIETRE LANCIATE CONTRO LE DONNE perchè creano un' attenuante al crimine e nascondono le ragioni di un fenomeno causato da molteplici fattori.
La deficienza di politiche paritarie fra i generi, la mancanza od i ritardi di leggi in materia (leggi che molti paesi hanno da tempo), l'indifferenza ed il silenzio della politica,il perdurare in una società che si dice civile, di una mentalità paternalista ed arcaica ed altri ancora sono i motivi che alimentano il maschilismo e la discriminazione di genere formando il terreno dove germoglia la violenza maschile. Facciamo quindi appello a tutte ed a tutti coloro che non vogliono produrre informazione spazzatura, affinché non si uniscano al branco dei semplificatori, dei superficiali, degli indifferenti ,insomma di tutti quelli che usano ,per comodo o per ignoranza, gli stereotipi come strumento di comunicazione. Con le vostre penne, le vostre immagini e la possibilità offerta dalla professione che esercitate, avete la responsabilità di dare un contributo fondamentale allo sradicamento di quella cultura maschilista e patriarcale che ancora alligna nel nostro paese.

PIU' DI CENTO DONNE SONO MORTE DALL'INIZIO DELL'ANNO
FERMIAMO TUTTI INSIEME QUESTA STRAGE