Tante, quante? Duemila e forse di più, comunque certamente più delle previsioni. In realtà le previsioni sono cresciute via via, costringendo a cambiare due volte la sede dell’incontro. Da un museo ex ospedale (Santa Maria della scala) a una piazza storica (quella del duomo) a una piazza –prato su cui si affaccia un vecchio edificio scolastico in cotto, come tanti edifici di Siena. Chi ha lavorato all’organizzazione di quest’incontro si merita tutta la gratitudine che è stata espressa negli interventi. Chi l’ha promosso può essere soddisfatta. Chi ci ha partecipato, anche chi ne ha seguito la genesi con qualche perplessità e lo dichiara, ne esce rafforzata.
Arrivo, mentre mi oriento per l’accredito e altre sciocchezze, incontro volti noti. Non solo compagne, anche amiche “normali”, quelle che vanno alle manifestazioni, ma solo a quelle grandi, quelle che c’erano il 13 febbraio. Come allora, mi dicono “finalmente, si ricomincia!” e io penso e non dico “ma tu dov’eri in questi anni, perché solo ora?”
Giornalisti e giornaliste presenti intervistano Rosi Bindi, Livia Turco arriva e suscita applausi.
Incontro alcune, poche, di quelle che hanno “tenuto” in tutti questi anni: le compagne di Roma e di altre città conosciute in decenni di femminismo. Non ci sono le cosidette “storiche”, con l’eccezione di Raffaella Lamberti, che mi racconta di essere stata fra le promotrici del comitato SNOQ di Bologna, esempio raro per quello che ne so. Altre da questo percorso hanno preso le distanze, anche con durezza. Lea Melandri ha affidato alla carta una riflessione che mi sembra incoraggiante.
L’età media però è alta. Non ci sono le molto giovani (e giustamente le trentenni rifiutano di giocare quel ruolo e si dichiarano adulte). Ma prima di dare a questa assenza un significato politico, penso alla collocazione marginale di Siena nei percorsi ferroviari e autostradali, alla data, al costo della trasferta, nonostante l’attivazione di una ospitalità militante insolita, credo, in una città come questa.
Si parte con la proiezione del video del 13 febbraio, e mi colpisce la varietà dei modi di partecipazione della platea: chi batte le mani al ritmo della colonna sonora, chi risponde “ADESSO” alla domanda che dal palco di piazza del Popolo in inverno arriva qui al prato di S. Agostino in estate, chi fa il grido delle manifestazioni degli anni ’70.
Comincia così una due giorni di dibattito serrato, per ore, con 55 interventi rigorosamente di tre minuti, 30 di comitati SNOQ nati in questi mesi, 10 di associazioni, 15 di donne singole. Altri 30 interventi sono stati affidati al cosiddetto punto G, dove era possibile registrarsi con la webcam o lasciare contributi scritti.
Credo che mi sia capitata raramente una situazione in cui sia stata così evidente la distanza fra la partenza e le conclusioni. Le relazioni introduttive avevano in comune l’atteggiamento di annunciare una novità, una nascita, come se non ci fosse stato prima nulla o quasi, come se fra il femminismo degli anni ’70 e l’oggi ci fosse stato il vuoto.
Questo limite era già presente negli appelli con cui era stato convocato il 13 febbraio e l’8 marzo, e, prima ancora, nel documento che aveva dato vita all’associazione DiNuovo.
Nelle relazioni conclusive, quella che ha dato conto della ricchezza delle proposte di contenuto e quella che ha avanzato una proposta organizzativa, compare invece l’affermazione, presente in molti interventi, che il movimento di donne che qui si è ritrovato si basa sul riconoscimento reciproco fra le donne che non hanno mai taciuto e quelle che adesso hanno preso parola.
Movimento di donne. Non a caso uso questo termine, invece di movimento delle donne. Il richiamo all’unità delle donne italiane mi è sembrato sincero, ma poco convincente. Anche perché si è spesso detto che l’aggregazione dovrebbe nascere sui “temi”, che non vuol dire molto. Altre invece hanno affermato che l’unità si costruisce su obiettivi e strategie, che è cosa diversa, e più complessa, forse impossibile, forse nemmeno auspicabile.
Un esempio. Fra i temi ricorrenti la maternità, affermata come diritto. La mia generazione ha combattuto la maternità come destino. Ma fra la maternità come destino e quella come diritto, mi sembra scomparsa la maternità come scelta, scelta di essere o non essere madre, quella che con una parola abbiamo chiamato autodeterminazione. Siamo sicure che sia possibile un’alleanza trasversale in difesa delle legge 194 (mai nominata)? C’è chi ha nominato l’attacco ai consultori, dove leggi regionali (Lazio e Piemonte) cercano di introdurre i volontari del movimento della vita. Una ha nominato anche la RU486, ma nelle conclusioni la maternità di cui si parla è rimasta quella resa difficile dal lavoro, causa di licenziamento illegittimo, lasciata tutta sulle spalle delle donne, non riconosciuta come diritto, appunto.
Assente dal linguaggio, per lo più, la parola conflitto. Ma il conflitto fra donne e uomini, e quello, non meno importante, fra donne, ci sono, e non si superano con la rimozione, ma vanno gestiti in modo non distruttivo.
Anche il rapporto con la politica sembra oscillare fra una sorta di approccio sindacale, (presentazione di richieste alla politica, imposizione di un’agenda politica delle donne) e l’affermazione che questo incontro “è già politica” e che bisogna avere il coraggio di dire che per avere più donne nei luoghi decisionali bisogna scacciare degli uomini. Larga la condivisione della proposta del 50 e 50, che qualche anno fa sembrò una campagna solitaria dell’Udi.
Interessante la proposta organizzativa: una rete i cui nodi sono i comitati locali, ma con la quale possono costruire relazioni anche associazioni, che condividono obiettivi e strategie. Il comitato nazionale SNOQ sta in questa rete come un nodo funzionale.
Non è la prima volta che dopo una manifestazione ben riuscita si cerca di mantenere un collegamento nazionale perché l’energia manifestata non si disperda. Di solito non si è andati oltre un certo numero di incontri, con una partecipazione via via più ridotta.
Che cosa ci può essere di nuovo questa volta? Non basta dire che di questo c’è bisogno: l’esistenza di una domanda non garantisce l’esistenza di una risposta. Forse uno degli elementi di forza è la compresenza delle diversità, generazionali in primo luogo. Se queste diversità sapranno trovare un linguaggio comune, se la struttura organizzativa saprà sperimentare forme di partecipazione e processi decisionali inclusivi, se ci sarà il massimo di scambio circolare e di riconoscimento reciproco di competenze e di autorevolezza, la scommessa lanciata a Siena avrà qualche probabilità di essere vinta.
Anna Picciolini
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